Il pranzo è servito da detenuti al centro Astalli di Catania
Tovaglia gialla e stoviglie blu. Con questo raffinato abbinamento di colori gli allievi del corso di ristorazione tenuto dal Cnos dentro l’Istituto Penale Minorile di Catania hanno apparecchiato i tavoli per il pranzo da loro preparato per 25 rifugiati assistiti dal Centro Astalli. La composizione della tavola e un servizio inappuntabile sono tra gli obiettivi della loro formazione, non meno importanti del buon sapore dei piatti cucinati.
E su tutti i fronti la scommessa è stata vinta, compreso quello dell’impatto con la realtà esterna, un passo non indifferente per questi ragazzi. Una realtà, in questo caso, non solo esterna ma anche ‘estranea’ alla mentalità e alla cultura da cui la maggior parte di loro proviene.
Il pranzo organizzato al Centro Astalli è stato il momento conclusivo di un percorso compiuto insieme agli educatori dell’IPM e ai volontari dell’Astalli che sono andati più volte nella sede di Bicocca per dialogare con i giovani detenuti aderenti al progetto. Non solo i cinque che hanno poi servito ai tavoli ma anche altri cinque loro compagni che hanno lavorato insieme a loro in cucina ma non erano nelle condizioni di ottenere il permesso per uscire dalla struttura detentiva.
Anche l’idea che il servire a tavola non sia una forma di umiliazione ma un gesto dignitoso e, in casi come questo, anche solidale non è stata facile da accettare. Solidale poi con chi? Con stranieri che possono essere visti come scomodi ‘invasori’ ma sono persone che, come loro, hanno vissuto e vivono vite difficili.
Ecco come il carcere, vissuto in un contesto che propone esperienze formative e sollecita aperture mentali, può rappresentare l’occasione di una svolta nelle scelte di vita, soprattutto per quei giovani che provengono da situazioni di forte deprivazione umana e culturale. Questi ragazzi, responsabili di reati più o meno gravi, stanno imparando in carcere non solo un mestiere ma anche a capire ed apprezzare nuovi valori.
Il tutto grazie al coraggio della direttora, Maria Randazzo, alla collaborazione generosa degli operatori, alla sensibilità del giudice di sorveglianza, Emma Seminara, che ha voluto essere presente anche al pranzo di mercoledì.
Il carcere si apre quindi alla realtà sociale esterna. “Da tempo cerchiamo di offrire ai nostri ragazzi non solo corsi di formazione professionale ma anche possibilità di incontro con esperienze che li arricchiscano e li facciano riflettere” dice Randazzo.
Il tutto con grande prudenza e mantenendo il controllo sulle tappe della evoluzione di ognuno. Ma espiare la pena in carcere deve essere sempre di più un’esperienza limitata a casi particolari, per gli altri è opportuno individuare forme “alternative” che siano formative e ‘attrezzino’ questi giovani a rientrare a pieno titolo nella convivenza civile.
Stranieri sono, del resto, anche alcuni dei giovani reclusi nell’Istituto e anche con loro i detenuti italiani hanno qualche difficoltà a rapportarsi. L’apertura alle culture diverse è quindi uno degli obiettivi che gli educatori si prefiggono e il cibo è stato individuato come uno degli strumenti che può favorire l’integrazione.
Al pranzo di mercoledì i commensali, rifugiati provenienti dalla Costa d’Avorio, dal Mali, dalla Nigeria, dall’Afganistan, che frequentano i corsi di italiano presso il Centro o utilizzano i suoi servizi, erano tutti giovani e tutti con storie drammatiche alle spalle
Nelle ‘retrovie’ della sala da pranzo, i docenti del Cnos (Centro nazionale opere salesiane) hanno guidato e consigliato gli allievi. Sono anche loro di fatto dei volontari che hanno deciso di portare avanti questo progetto perchè ne capiscono il valore. A causa dei problemi che stanno squassando la formazione professionale regionale, non vengono pagati da quasi due anni. Eppure sono ancora lì ad offrire il loro tempo e le loro competenze.
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