Io ho le chiavi
Io ho le chiavi. Le chiavi per aprire ogni cosa: il portone, l’uscio, gli armadi, la cucina, le stanze, persino i distributori di sapone e di carta. Esiste una cassetta, anch’essa chiusa da una chiave, dove sono riposte tutte le chiavi. Ho le chiavi.Per questa ragione, nei giorni più bui, mi chiamano “Secondina”.
Ogni giorno, alle sette di sera, filtrata l’immagine di chi bussa attraverso l’occhio di un video citofono, apro il portone e prendo le chiavi. Aspetto. Ascolto salire i tre piani di scale, ora il rumore dell’ascensore, ora il fiato corto e mi riparo dietro una scrivania di legno chiaro. Consegno le chiavi. Ogni chiave ha un diverso colore. Ogni chiave chiude un armadio ed in ogni armadio una storia.
Otto donne. Otto vite. Giovani, meno giovani. Donne che amano donne, donne che vorrebbero essere più donne di quanto l’anagrafe e la natura non dicano, donne ferite, donne in attesa, donne innamorate, donne impazzite, donne stracciate, perse, abbandonate. Donne senza una casa.
Io, ogni sera, le aspetto, in un luogo che sembra una casa.
Con attenzione, misura, sguardo professionale da dietro la scrivania impartisco istruzioni per la serata: la cena, qualche discussione da sedare, un atteggiamento non consono da regolare, i ritardi da evidenziare. Ho un registro, e lì segno assenze, presenze e ritardi nel dormitorio femminile, (una struttura di accoglienza notturna “di secondo livello”), denominato “Treccia”, per donne in condizioni di senza dimora.
Quante volte, in quante sere, non ho ascoltato, compreso, capito o abbracciato. Quanti silenzi ho ignorato, quanti sguardi ho evitato. Alcuni dolori sono così intensi che non si ascolta, non si vede, non si sente. In quelle sere distribuisco senza anima. In quelle sere innesco il pilota automatico: la Secondina lavora… E mi domanda, con sguardo muto e severo, di tutte le sere in cui non sono stata in grado di far coincidere ciò che sono con ciò che mi è chiesto di essere.
Un ricordo rabbonisce ogni severità.
Una sera Luisa chiede di ascoltare musica. E’ una musica dolce e malinconica. E’ l’ora di cena di una serata estiva e la musica ci accompagna ancora mentre consumiamo il pasto. Non si potrebbe. La Responsabile dovrebbe spegnere la radio. Gestire la relazione con la giusta dose di distanza. Le note del sassofono invadono le stanze. Sono la chiave giusta, quella vera, che apre. Nel silenzio di parole Amelia, la pittrice, si perde. Raffaella ride, come sempre, una risata incomprensibile anche a se stessa. Milena, la mamma di tutte, mangia poco e ha lo sguardo triste. Iniziamo un gioco. La musica evoca forme imprendibili. Ognuna, in turni non assegnati ma ordinati descrive la scena di un film immaginario. Nel descrivere ogni ipotetico fotogramma c’è il racconto di ogni biografia personale. Ho la sensazione crescente che ci sia un elemento di magia. Lascio che questo fiume di parole e di emozioni, ora impetuoso ora calmo, scorra di fronte a me.
Comprendo, ascolto, accolgo ed in parte dirigo. A volte devio qualche direzione troppo dolorosa, a volte sollecito qualche silenzio troppo denso. Anna mi osserva, con i suoi occhi grandi. Vanessa, oltre il mascara e il fondotinta steso abbondante, mi sorride.
E’ per questo che sono qui. Mi sento al mio posto. Come ogni volta che le relazioni assumono contorni di autentica efficacia, senza i filtri opachi del ruolo assunto.
Non esiste il lieto fine in questa storia. Alcune hanno ritrovato una Dimora, forse accettabile, ed un nuovo equilibrio, altre hanno continuato a perdersi. Io continuo il viaggio.
Non vissero tutti felici contenti. Vissero
Santa Bellomia – Associazione San Marcellino (Genova)
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