Rom-Sinti. Siamo entrati in un mondo “altro”
“e Gesù venne e si fermò in mezzo a loro”(Gv 20,19b).
E’ da secoli che la parola “zingaro” viene usata in senso dispregiativo verso coloro che appartengono al popolo Rom/Sinti.
Ancora oggi il parlare di “zingari”, Rom e Sinti, è impregnato di pregiudizio: ladri, bugiardi, sporchi, fannulloni. Tra i sondaggi, infatti, è l’ultima categoria di persone con la quale si vorrebbe entrare in contatto. Il pregiudizio è una generalizzazione fondata sulla non conoscenza.
Noi vorremmo provare a raccontare un’altra narrazione.
Il nostro incontro con i Rom sedentari di Cosenza è avvenuto circa 35 anni fa: un piccolo gruppo di famiglie, in ricerca di senso nella propria vita, con tante domande rispetto alla fede, alla giustizia sociale e alla solidarietà, ha incontrato una padre gesuita, P. Alberto Garau, che viveva il proprio ministero sacerdotale tra i Rom sedentari di Cosenza.
Le motivazioni iniziali e l’entusiasmo giovanile ci hanno portato a frequentare i Rom e a donarci con generosità.
Siamo entrati in un mondo “altro”: la maggior parte delle persone viveva in baracche alla periferia della città in situazioni igienico-sanitarie precarie; pochi bambini frequentavano la scuola (solo per i Rom); gli adulti praticavano attività lavorative quali la raccolta e la rivendita del ferro, il commercio di cavalli, lavori stagionali; altri vivevano di espedienti. Questa realtà ci ha impattato in maniera forte e repulsiva, perché eccedeva l’ordine, era eccezionale, fuori dall’ordinario. Il loro modo di essere e di vivere incuteva paura, ma le nostre motivazioni ci hanno permesso di continuare a stare e fermarci in mezzo a loro.
Il nostro agire inizialmente era improntato sul fare, come risposta ai loro bisogni, e non ci rendevamo conto che il nostro sguardo era velato dal pregiudizio, in quanto mirato al loro cambiamento. Li guardavamo come un problema sociale da risolvere e la posizione tra noi e loro era asimmetrica: noi detentori di un potere e loro passivi nell’accogliere i nostri progetti/proposte per loro.
Riconosciamo che questo era uno sguardo e una lettura superficiale della realtà Rom. Le resistenze dei Rom ai nostri interventi, le nostre resistenze a lasciarci interpellare, contaminare e cambiare da una realtà così diversa e distante dai nostri costrutti mentali, un ascolto più attento ed il fermarci a riflettere sul nostro operato sono stati elementi che ci hanno permesso di spostare lo sguardo più in profondità, oltre il visibile.
Dal soddisfare i bisogni e al lottare per i diritti dei rom siamo passati al riconoscimento e all’accoglienza del valore e della dignità del rom in quanto “persona” e non in quanto “problema sociale”; persona con valori, progetti, sogni, desideri di riconoscimento e di accoglienza.
Quella realtà che ci appariva così diversa e minacciosa l’abbiamo assunta come punto di osservazione: la periferia, il margine, la precarietà, il campo rom, sono diventati il filtro per comprendere come funziona il centro, la città.
Abbiamo colto spesso l’indifferenza e la debolezza delle Istituzioni civili: i campi rom o i ghetti nascono per una precisa volontà politica a voler escludere e lasciare ai margini realtà che richiedono risposte impegnative, non generalizzabili ma che tengano conto della specificità dei soggetti, innescando processi di accompagnamento e sostegno alla fragilità e alla vulnerabilità.
Il contatto quotidiano con i ragazzi nell’accompagnamento scolastico ci ha dato la possibilità di vedere l’inadeguatezza del sistema scolastico in quanto non inclusivo, fatte le dovute eccezioni per insegnanti particolarmente attenti e sensibili.
Ancora una volta le resistenze dei ragazzi verso la scuola, i compiti, verso noi volontari, ci hanno permesso di leggere questi comportamenti senza il pregiudizio che “le famiglie non sono interessate alla scuola perché il bambino deve seguire i genitori sul lavoro; per il rom la scuola non è un valore; culturalmente sono svantaggiati…”
Abbiamo imparato ad andare oltre questi comportamenti, a comprenderli e a dargli senso, riuscendo ad entrare in contatto con la ferita profonda di rifiuto che il bambino si porta dentro, con la sua bassa autostima, con la sua insicurezza e, quindi, con la domanda insistente: “quanto credi in me? quanto valore ho per te?”
In genere, la scuola si pone con un atteggiamento normalizzante “devono essere come gli altri”, oppure con l’accentuazione della loro diversità, “sono Rom, sono eccessivamente diversi dagli altri, la loro cultura… le loro storie familiari…” non considerando il loro bisogno fondamentale di sentirsi accolti e accettati così come sono.
L’accoglienza e l’accettazione sono le condizioni per entrare in contatto con la persona, in modo da non consegnarla ad un destino ineluttabile, ma accompagnandola nel fare evolvere la sua storia scoprendo le tante risorse, i talenti, la bellezza, i sogni, il valore che ciascuno porta dentro di sé.
Questo processo di riconoscimento e accettazione della persona vale per ogni essere umano, ma è particolarmente vero per i rom in quanto è più forte per loro l’esperienza di esclusione e di rifiuto da secoli.
I rom restano e resistono: questa è la loro grande forza! Non si adeguano, non si lasciano assimilare. Solo assumendosi la responsabilità reciproca di un incontro dialogico e alla pari si possono attivare processi di apertura e crescita da entrambe le parti. Anche per noi stare e resistere in mezzo a loro non è solo un dono per la nostra crescita umana e di fede, ma è anche atto politico.
Associazione Circolo Culturale Popilia
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